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Andrej Tarkovskij: Il tempo scolpito e leredità perduta | Kasparhauser 15
A cura di Guidfo Cavalli e Lorenzo Lasagna
Icona, cinema e rito nellAndrej Rublëv di Tarkovskij
di Andrea Ponso
Luglio 2017
La proposta che qui si vorrebbe tentare è legata ad una lettura prevalentemente rituale e liturgica del lavoro di Tarkovskij, proprio grazie alla presenza dell’icona. Le motivazioni ermeneutiche sono molte, e toccano direttamente anche l’idea di “verità” e del rapporto con la complessità del “reale”. Una prima, fondamentale motivazione, secondo Terrin, è la seguente:
L’idea sottesa al significato di rito come riconoscono molti studiosi possiede una sintassi che appare abbastanza indipendente dalla semantica. Con ciò voglio indicare previamente che le parole e la posizione delle parole nel contesto rituale “valgono di più” dell’eventuale significato che esse veicolano a livello semantico. In tal senso, si potrebbe dire già da ora che il rito risulta formato da un tipo di linguaggio avente come sfondo una serie di immagini, o forse una serie di diapositive le quali valgono come “segni” e hanno il compito di “imprimersi” nella mente, di “impressionare”, di creare qualcosa come un imprinting sulle menti dei partecipanti. Se vale questa prospettiva, il rito potrebbe essere visto come una semplice concatenazione di segni e di immagini. [...] Ne viene una seconda premessa da mantenere come costante in questo studio: il rito è alla ricerca continua di una “presenza”, è un “fissare lo sguardo su” un’immagine, un’icona. Il rito è cercare la comunicazione diretta con la sensibilità, non attraverso le parole, ma soprattutto per mezzo dei sensi, attraverso lo sguardo, il contatto, attraverso un’azione di avvicinamento. In quest’ambito le scienze cognitive ci hanno reso un servizio apprezzabile facendoci capire che il rito e la liturgia vanno intesi in quanto azioni, come movimenti: sono posizioni del corpo in cui si cerca uno spazio comunicativo più originario rispetto alla parola. [...] oggi ci rendiamo conto che le cose che facciamo con i nostri sensi e con il nostro corpo hanno un impatto diretto sullo stadio della nostra coscienza. Ci rendiamo conto che mente e corpo non sono due entità separate, ma corpo, mente e mondo formano un tutt’uno. [1]
La fede, come la bellezza, è quindi più il frutto di “immagini” (e di immagini in qualche modo sempre dinamiche e mai oggettivanti) e di relazioni di queste con gli altri codici, verbali e non verbali, che di concetti e significati. Si tratta quindi di qualcosa che è più dalla parte del rito che della dottrina, anche per l’intrinseca multimedialità del rito stesso, così come accade nell’opera d’arte, anche in quella cinematografica. La tesi di Terrin a questo riguardo è la seguente:
la teoria della percezione delle immagini sconfina quasi di sua natura in una teoria del rito e della liturgia. Se gli attuali studi sulla percezione tendono a far vedere la diretta presa di contatto con il mondo e mostrano come il percepire è già un “agire sugli oggetti” percepiti, anche il rito, per parte sua, vive di uno stesso agire analogico: nel mondo cultuale il rito lavora sulle immagini percepite e vissute in maniera adattativa attraverso forme di azioni. [2]
Riferendosi più precisamente al rito ortodosso e all’icona, Florenskij scrive a tale proposito:
non di rado ci si trova di fronte all’ignoranza e all’insensibilità estetica, per cui l’icona viene percepita come una cosa indipendente, che si trova, di solito, in un tempio, che per caso è posta in un tempio, ma che può essere trasportata con successo in un’aula, in un museo, in un salone o chissà dove. Io mi sono permesso di chiamare ignoranza quest’allontanamento di uno degli aspetti dell’arte religiosa dall’organicità compatta del rito religioso come sintesi delle arti, come ambiente artistico nel quale, e solo nel quale, l’icona ha il proprio autentico senso artistico e può essere fruita nella propria autenticità artistica. [...] In un tempio, in linea di principio, tutto partecipa a tutto: l’architettura del tempio, ad esempio, calcola evidentemente anche il minimo effetto dei fasci di incenso azzurrognolo che si snodano lungo gli affreschi e avvolgono le colonne ampliando, quasi all’infinito, gli spazi e le linee e, quasi fondendole, producono un movimento vitale. [...] Possiamo ricordare i plastici e ritmici movimento degli addetti al servizio divino [...] il gioco e le iridescenze delle pieghe dei tessuti preziosi, i profumi, il particolare agitarsi delle fiammelle nell’atmosfera, ionizzata da migliaia di fuochi ardenti, e ricordiamo ancora che la sintesi del rito religioso non si limita solo alla sfera delle arti figurative, ma coinvolge anche nella sua cerchia l’arte vocale e la poesia: la poesia in tutti i sensi, dal momento che essa si presenta sul piano dell’estetica come dramma sociale. [3]
Uno dei meriti maggiori del film di Tarkovskij è quello di avere, almeno in parte, salvato alcune delle modalità rituali e liturgiche che caratterizzano la fruizione dell’icona: il movimento dell’immagine, il montaggio che porta alla scena finale, e che nella stessa scena finale dell’icona della Trinità è presente, sembra riuscire in qualche modo a colmare il vuoto a-cultuale in cui siamo abituati a collocare le immagini contemporanee; le nostre icone contemporanee sono, ad un tempo, idoli e dispersione, irrelate e connesse in una modalità propriamente babelica, che ne impedisce la singolarità e la simbolicità non come rimando ma come unificazione e presenza.
Il riferimento spaziale, in particolare, attraverso la sua “non conclusività”, si mostra come apertura, via e vita abitate dalla possibilità della trascendenza, proprio come sembra accadere nell’organizzazione filmica:
Le linee non sono simmetriche e non creano l’illusione o l’ipnotismo, ma sono “sentieri amabili” per la mente umana. Oltre alla sua fisicità, lo spazio è in diretta relazione con lo psichico umano e con l’agire sociale e culturale dell’uomo, diventando condizione di conoscenza [...] Lo spazio non è diviso in singoli elementi, ma si com-pone in un insieme che si converte in una finestra attraverso la quale si crede di guardare l’Altro mondo; gli elementi che compogono la costruzione geometrica sono una “intuizione prospettica”, un atto di fede sotto “forma simbolica”, in cui si proiettano tutte le cose. Lo spazio sacro bizantino mantiene la prospettiva dell’arte antica nel senso che gli elementi non circoscrivono lo spazio, ma soltanto lo alludono. Le forme riferiscono la realtà e danno senso a tutte le altre cose, creando un erlebnis immediato, uno spazio psico-fisiologico infinito, costante e omogeneo. Oltre ad essere superficiale e ornamentale, l’arte bizantina continua la tradizione della “spazialità irreale” senza riferimenti sparsi e senza essere completamente realizzata nella tridimensionalità. L’ambiente sacro, materializzazione di molti simboli, indica una presenza “sovrafisica” molteplice, aperta e senza fine nella sua forma. [4]
L’uso della luce, che ha una grande importanza nella teologia ortodossa, viene affrontato nel film come l’origine stessa dell’immagine, non solo con il bianco e nero che poi trova nel finale il colore, ma anche nel gioco delle infinite variazioni atmosferiche che un occhio attento può percepire: non si tratta mai, insomma, di accedere ad una sorta di iper-realismo dell’immagine, ma di lasciare all’occhio, tramite le infinite variazioni del bianco e nero, la possibilità di non credere mai fino in fondo all’irrevocabilità dei contorni delle figure, per impedire un giudizio sul reale che non spetta all’uomo ma solo a Dio; inoltre, se la luce è la stessa verità come manifestazione, come origine di ogni cosa che passa sotto il nostro sguardo, essere dentro alla luce, anche quando è bianco e nero oppure penombra, è già seguire la manifestazione storica del Verbo, così come viene narrata drammaticamente nell’incipit del Vangelo di Giovanni. In questo senso, allora, fin dalle prime scene siamo invitati a partecipare attivamente ad una luce che è propriamente rituale. Scrive a tale proposito Florenskij:
Prendiamo, ad esempio, la stessa icona. Naturalmente, non è per nulla indifferente il modo in cui è illuminata, e naturalmente, per l’essenza artistica dell’icona, la sua illuminazione dev’essere proprio la stessa per cui è stata dipinta. Questa illuminazione, in questo caso, non è affatto la luce diffusa dell’atelier di un pittore o della sala di un museo, ma è la luce instabile disuguale, ondeggiante, in parte, forse, vacillante di una lampada. Destinata al gioco di una fiamma tremolante, agitata da ogni soffio di vento, calcolando in anticipo l’effetto dei riflessi colorati dei fasci di luce, che passano attraverso un vetro colorato, a volte sfaccettato, l’icona può essere fruita, come tale, solo in questo trascorrere, in questo tremolio della luce, frantumata, irregolare, come pulsante, ricca di caldi raggi prismatici, di una luce che viene percepita da tutti come cosa viva, che riscalda l’anima, che emana una calda flagranza. Dipinta più o meno in queste condizioni, in una cella semi-buia, con un’angusta finestra, con un’illuminazione in parte artificiale, l’icona rivive solo in condizioni corrispondenti, e, al contrario, muore e si altera in condizioni che potrebbero, genericamente e astrattamente parlando, mostrarsi più favorevoli per un’opera di pennello. Mi riferisco all’eguale, tranquilla, fredda e forte illuminazione di un museo. E molte particolarità delle icone, che eccitano lo sguardo savio dei contemporanei: la parziale esagerazione delle proporzioni, l’accentuazione delle linee, la profusione di oro e pietre preziose, il rivestimento e le corone, i pendagli, i veli di broccato, di velluto e ricamati con perle e pietre preziose tutto ciò, nelle condizioni proprie dell’icona, non esprime affatto la vitalità di un piccante esotismo, ma è vitalmente presente come necessario, assoluto ed inevitabile, unico modo di esprimere il contenuto spirituale dell’icona, cioè unità di stile e contenuto o, in altri termini, come autentica artisticità. L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille ora qui, ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste. L’oro, attributo convenzionale del mondo celeste, qualcosa di artificioso e allegorico in un museo, è un simbolo vivo, è “rappresentazione” in un tempio con lampade che ardono e infiniti raggi che si accendono. È proprio in questo modo che il primitivismo dell’icona, la sua colorazione, a volte chiara, quasi insopportabilmente vivace, la sua eccessiva ricchezza, la sua ostentazione, tengono sottilmente conto degli effetti dell’illuminazione della chiesa. [5]
Nella sua Difesa delle immagini sacre Giovanni Damasceno scrive:
Tu vedi bene che uno solo è il fine, e cioè che non si adori la creatura al posto del Creatore e non si rivolga ad essa la venerazione, ma soltanto al Creatore. Perciò in ogni occasione la Scrittura aggiunge alla venerazione il culto. Infatti dice ancora: [...] Demolirete i loro altari, frantumerete le loro stele, abbatterete i pali sacri e col fuoco brucerete le sculture dei loro dèi, poiché non vi prostrerete davanti ad altro dio, e dopo poco: Non ti farai dèi di metallo fuso. [6]
Il montaggio, l’uso della luce e l’andamento narrativo del film portano lo spettatore ad incarnarsi nella storia con le sue contraddizioni, il suo dolore e la sua “passione” e, in questo senso, permettono anche di “demolire” ogni fissazione idolatrica della storia, sempre alla ricerca di quella “finestra” che ne mostri l’ulteriorità; mentre la visione finale dell’icona della Trinità, pur non cancellando le vicende narrate, apre alla presenza relazionale perduta nel mondo infranto dalla violenza; una presenza che, tuttavia, non è concettuale ma anch’essa dinamica, come è dinamica e non dualistica l’economia trinitaria; le ultime immagini, così vicine alla materialità dell’opera, tanto da farla sembrare qualcosa di contemporaneo, quasi un quadro di Burri, sembrano salvare non solo l’ulteriorità della manifestazione divina, ma anche la materia come luogo devastato dell’incarnazione del Verbo che l’icona, nella sua armonia, recupera e compone come promessa escatologica già presente. La pellicola filmica riannoda le vicende narrate per quello che sono, ma già questo riannodare, già quest’opera di montaggio e di luce, è l’inizio paradossale e il desiderio incessante di un recupero della relazione, della verità come relazione trinitaria e della bellezza come armonia ritrovata.
I molteplici punti di vista che il montaggio ci fa sperimentare, assieme all’uso così particolare della luce, come la mancanza dell’illusione prospettica tipica dell’icona, ci invitano a prendere posto personalmente e singolarmente alla visione come preghiera e contemplazione, così che il vero significato dell’icona è fatto da azioni (gli spostamenti della visione, l’abituarsi continuo dell’occhio al gioco della luce) e sentire: il “contenuto”, la “verità”, è quindi sempre di tipo ergo-emotivo, proprio come accade nella liturgia, e mai fatto di contenuti concettuali staccati dalla partecipazione attiva e coinvolgente di chi guarda.
È chiaro che c’è lo sguardo del regista che ci guida, come è chiaro che, durante la liturgia, c’è il sacerdote che guida il rito, ma si tratta di un servizio e non di una imposizione di potere e, quindi, di punti di vista: il fine, infatti, è quello di trasformare lo “spettatore” in sacerdote che vive e prende parte in prima persona alla liturgia, in perfetta coerenza teologica con il fatto che ogni cristiano è sacerdote attivo nella comunità dei credenti. Lo sguardo dello spettatore è quindi portato ad attuare una continua conversione da ogni fissazione ideologica e idolatrica che arriva direttamente e principalmente a livello fisiologico attraverso gli elementi della visione, proprio come accade al protagonista del film, prima di arrivare al risultato dell’opera: anche in questo caso, quindi, il “significato” non è portato alla luce attraverso asserzioni e teorie, ma con il suo stesso farsi narrativo ed estetico. La verità è questa conversione continua, è questo fare che è poiein, questo simbolo il cui significato non è altro che la sua pratica: in questo si manifesta il Verbo veramente incarnato e il divino, non fuori e oltre la storia e lo schermo, ma in essa, nell’immanenza esplode la quiete vivente della trascendenza, se l’immagine non si fossilizza in idolo e se l’uomo non la adora né come idolo né come semplice “contenitore” di significati, bensì come significante in atto e relazione unificante. Proprio per questo motivo la giustificazione teologica dell’icona è legata indissolubilmente all’incarnazione di Cristo:
Il Verbo indescrivibile del Padre incarnandosi da te, Madre di Dio, ha preso forma e, restituendo la corrotta immagine umana al suo modello originario, l’ha congiunta con la bellezza divina. Professando la salvezza, raffiguriamo il mistero con l’azione e con la parola (Kontákion della Festa dell’Ortodossia).
Il “significato” profondo della fede sembra acquisire il suo vero statuto solo quando, uscendo da tutte le sue stesse determinazioni entra, incarnandosi, nella vita concreta dell’uomo come modello dinamico dell’immagine e della somiglianza smarrite modificandola: sarebbe questo, alla fine e in tutta semplicità, il senso spirituale delle Scritture e della stessa teologia e liturgia; esso, cioè, si scopre e si penetra, si percepisce e assume la sua giusta verità, solamente in quanto viene vissuto come conversione continua di tutto l’uomo attraverso la percezione delle forme e, quindi, come elemento vivente che destabilizza tutti i significati e le rappresentazioni già date.
Anche seguendo questa seconda caratteristica dell’impostazione veritativa dei padri, ci troviamo di fronte alla positiva impossibilità di dire la verità sotto forma di concetti o idee irrelati dalla vita nel suo concreto svolgersi; e anche in questo caso, quindi, il tipo di ontologia che ne scaturisce, se ancora possiamo parlare di ontologia, è di tipo storico-relazionale e, da questa base, poi, nel già e non ancora, trascendente ed escatologica.
La verità, così intesa, sembra inoltre mettere in rilievo anche il suo carattere comunitario, poiché, se essa si realizza attraverso la storia e la conversione dei singoli credenti e del loro insieme nella comunità, diventa qualcosa che si diffonde e che possiamo leggere e apprendere potenzialmente grazie ad ogni uomo, ad ogni gesto e ad ogni immagine o parola. È chiaro, poi, che questa comprensione dinamica e relazionale della verità non può mai essere immune da errori e sbandamenti, non può mai cioè essere “o bianco o nero” ma bianco e nero insieme, fino al colore che arriva alla fine come dono non umano ma divino, poiché è sempre segnata dalla precarietà del cammino umano e dello stesso rapporto che l’uomo ha con Dio:
Nella tensione permanente escatologica tra il “già” e il “non ancora”, ogni carisma ecclesiale è intimamente condizionato però dalla precarietà, e da una vera e propria relatività del suo ufficio, così che l’unica norma permanente della Chiesa resta la crescita dell’amore fino alla visione. In questo contesto, perfino la predicazione della Parola, che è il supremo servizio della comunità peregrinante, dovrà restare in continuo stato di esodo e di relativizzazione del proprio ministero. Pochi come Gregorio sostiene p. Calati hanno riconosciuto la transitorietà della Parola nella peregrinazione presente, non solo se posta dinanzi alla visione del Verbo glorioso che ci attende, ma anche nella stessa vita presente, quando è posta di fronte a un autentico perfezionamento dell’amore”. [7]
La cosa davvero sorprendente è che tale “relativizzazione” assume un carattere teologico ed ermeneutico positivo, poiché apre continuamente alla dinamica trinitaria della verità come azione e partecipazione, al di là di ogni ipostatizzazione, anche, e forse soprattutto, di ogni ipostatizzazione legata ai ruoli religiosi. Potremmo forse dire che anche quello che semplicisticamente viene etichettato oggi sotto il nome di “postmoderno” diventa, guardando indietro alla prassi patristica, qualcosa che ha a che fare con la pienezza: esso stesso, cioè, viene salvato grazie alla continua conversione verso la trascendenza: non oltre, ma nell’immanenza. E questa coralità, ad un tempo dispersa e unificata nel desiderio trinitario, sembra toccare anche molti punti della pellicola e la stessa idea di cinema come rito comunitario.
Si potrebbe allora sostenere che la vera ermeneutica, in ambito cristiano, non è tanto la comprensione razionale o soggettiva solamente: l’ermeneutica è l’uomo stesso in carne e ossa, esistenzialmente presente nella sua vita concreta in relazione con la Parola. La forza dell’icona come forma liturgica della manifestazione sta proprio in questa capacità di non esaurire il Mistero, ma di aprire ad esso come desiderio e presenza insieme; vedere l’icona in un film, allora, è come vedere e partecipare, attraverso l’immagine, a ciò che l’immagine non può contenere come contenuto: si tratta di un vuoto di immagine, potremmo dire, proprio al centro e dentro l’immagine che per tutto il film si prepara alla visione. Dal punto di vista filmico, allora, si potrebbe sostenere che la stessa pellicola cinematografica torna ad essere semplicemente pellicola cinematografica nella sua materialità, come fosse riportata alla sua esatta finitezza, e solo da tale finitezza potesse far vedere la trascendenza che la attraversa e la muove, dal gesto che la prepara fino al movimento che la porta ad essere immagine, proprio come accade nella nascita dell’icona e come si vede, in tutta la sua povera e splendida materialità, nelle riprese finali del film.
Il regista sembra avere ben presente, proprio in questo senso, qualcosa che la fede ortodossa ha sempre preservato con maggiore forza che la fede cattolica nel triduo pasquale: si tratta della “discesa agli inferi” che coincide con il silenzio del Sabato Santo. Tutto il film sembra essere precisamente l’attraversamento di questa mancanza di Dio, di questo silenzio e di questo inferno, di questa esitazione tra la morte e la resurrezione, tra la mancanza di senso e di relazione e il dono relazionale che l’icona della Trinità riporta tra gli uomini come resurrezione:
Si tratta di un silenzio di conoscenza, di approfondimento, un silenzio che interiorizza la compassione e rende personale l’amore; silenzio che scava uno spazio alla tenerezza. Ed è importante anche per noi conservare la memoria di questo clima: è nel silenzio che Gesù scende nel male; è nel silenzio che anche noi scendiamo nel male e nel dolore, nostro e altrui. In questa memoria è data una sorta di paura silenziosa, uno spazio che separa la morte dalla resurrezione; spazio che dà la possibilità di meditare e far propria anche la morte. Qui viene offerta una sosta in cui la meditazione della morte diventa anche preparazione alla resurrezione. [8]
Ed è anche il silenzio dell’immagine come icona compiuta, dell’ispirazione che non arriva fino alla fine, quando appunto “si fa propria anche la morte”, per arrivare alla vita trinitaria dell’icona finalmente realizzata come segno donato, così come dono è la stessa ispirazione. La discesa agli inferi, nella tradizione patristica, è principalmente desiderio di riannodare la relazione e il dialogo, di prendere di nuovo parte alla dinamica trinitaria. Scrive a tale proposito Efrem il Siro:
Come un cercatore di perle ti sei immerso negli inferi, per cercare la tua immagine inghiottita dalla morte; come un povero e un miserabile sei sceso e hai sondato l’abisso dei morti; e la tua misericordia è stata ricompensata, perché hai visto Adamo ricondotto all’ovile (liturgia siriaca, Preghiera di Efrem).
Questo viaggio verso l’immagine sembra caratterizzare l’opera di Tarkovskji, in piena sintonia con le modalità liturgiche e rituali che abbiamo visto all’inizio; e il montaggio che ne delinea il percorso, assieme all’uso della luce e del colore, è forse il desiderio stesso che si svolge per riannodare l’infranto e ritrovare l’unità e la quiete al centro di un mondo in cui sembra totalmente perduta. Non ci si stanca mai di questo desiderio, di questa discesa agli inferi personali e storici, nella speranza di fede che l’icona mostra ad un tempo come realizzazione e promessa. Realizzazione e promessa che, come sappiamo, nella famosa icona di Rublëv non rappresenta la Trinità attraverso le tre figure che, invece, sono il racconto dell’episodio biblico dell’apparizione dei tre angeli ad Abramo: le tre figure non sono quindi le tre ipostasi della Trinità; piuttosto, essa è raccontata nei gesti e nei movimenti, nelle pieghe e nella gestione armoniosa degli spazi, nell’incrocio degli sguardi, nel variare della luce e nel suo uscire verso lo spazio di chi guarda come un abbraccio che coinvolge chi si credeva solamente “spettatore”, così come per molti aspetti accade nel film di Tarkovskij.
Ma, allora, dove è finito tutto il dolore, dove sono finite le contraddizioni violente del mondo e della materia? L’icona, almeno dal punto di vista delle figure rappresentate, è statica, il corpo viene trasfigurato e non c’è mai segno di violenza, nemmeno nel Cristo dopo la morte; i colori non sono “naturali”, così come non sono naturali le “pose”. L’icona, in questo modo, produce una sorta di accellerazione escatologica della materia, mostrandola per quello che continuamente diventa come promessa di redenzione, mentre l’uomo è chiamato ad entrare con fede nel suo abbraccio, portando con sé la sua storia e tutto il suo essere fatto anche di dolore e dubbio, contraddizioni e insondabile mistero.
In questo senso l’icona, come forse l’intera ricerca artistica di Tarkovskij, ricorda e mostra all’uomo, proprio nel mezzo delle sue contraddizioni e dei suoi dubbi e dolori, un modo altro di vita e di conversione, un desiderio che spesso viene dimenticato, una speranza di bellezza non semplificata e non retorica. L’unica bellezza alla cui luce davvero il mondo si può salvare.
[1] A.N. Terrin, Religione visibile. La forza delle immagini nella ritualità e nella fede, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 7-8.
[2] Ivi, p. 18.
[3] P. Florenskij, “Il rito ortodosso come sintesi dell’arte. Monastero della Trinità di San Sergio” in La prospettiva rovesciata e altri scritti, Casa del Libro, Roma 1983, pp. 63-64.
[4] P. Scarlat, Liturgia ortodossa. In dialogo con le scienze cognitive, Cittadella, Assisi 2014, pp. 127-128.
[5] P. Florenskij, La prospettiva rovesciata, cit., pp. 62-63.
[6] G. Damasceno, Difesa delle immagini sacre, Città Nuova, Roma 1983, p. 35.
[7] G. Paris, Uomo di Dio amico degli uomini. L’insegnamento spirituale di P. Benedetto Calati, EDB, Bologna 2007, p. 121.
[8] S. Chialà, Discese agli inferi, Qiqajon, Magnano 2000, pp. 32-33.
Andrea Ponso è nato a Noventa Vicentina nel 1975. Dopo studi letterari (laurea in teoria della letteratura a Padova e dottorato di ricerca in lingue e letterature comparate a Macerata) sta concludendo quelli teologico-liturgici. Si occupa di letteratura, teologia e traduzione dall’ebraico biblico. Ha pubblicato testi di critica, teologia e poesia in varie riviste, mentre il suo ultimo libro, I ferri del mestiere, è uscito per Lo Specchio Mondadori nel 2011; nel 2014 è uscito Letture Bibliche per Fara Editore. Una sua nuova versione dall’ebraico del Cantico dei cantici uscirà per Il Saggiatore nel 2017.
Mark Neil Balson, http://a-bittersweet-life.tumblr.com/post/96542969814/each-one-of-andrei-tarkovskys-films-is-an-intense
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